Cultura
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Ho davanti le fotografie di Giuseppe Leone[1], in cui sono insieme Sciascia e Bufalino: due giganti della letteratura che con intenti diversi hanno scritto sul destino dell’uomo. E vorrei sperare di averne altri come loro. In quest’ottica si è mosso l’amabile libro di Giuseppe Traina sulla scrittura siciliana[2], ha lavorato anche fra le carte dello scrittore di Comiso. Bufalino, scrittore segreto fino al 1976.

Fu l’introduzione a un libro di vecchie fotografie su Comiso (Comiso ieri), che lo segnalò all’attenzione di Leonardo Sciascia e di Elvira Sellerio. Sollecitato a pubblicare le sue eventuali composizioni, anche per l’insistenza di Enzo Siciliano, solo nel 1981 (già sessantunenne), vinse la ritrosia, dettata forse da riservatezza, e si decise a estrarre dal cassetto Diceria dell’untore. La pubblicazione apparve come un “caso” letterario non solo per i temi trattati, ma per lo stile iperletterario così duttile da intrecciare “retorica e pietà, artificio e pena”. Nasce e si sviluppa da qui il sodalizio tra Sciascia e Bufalino grazie alla mediazione di Elvira Sellerio. Ancor prima di essere in tutte le librerie, lo scrittore di Racalmuto gli dedica lo scritto Che Mastro, questo don Gesualdo, apparso su «L’Espresso» dell’1 marzo 1981: «una sorta d’investitura nel mondo della notorietà letteraria» è stato definito.

L’articolo, congegnato per domande e risposte concordate telefonicamente e mai di persona, punta l’attenzione alle esperienze pregresse di Bufalino (i primi dieci o dodici anni di vita, la lettura del mondo attraverso i libri, il fascismo e la guerra, l’ancoraggio alla cultura francese che li accomunava, tra cui Baudelaire…). Infine, la domanda cruciale: «E il libro da quale esperienza è nato, per quale necessità?». La risposta chiarisce qualche tappa dell’itinerario: «L’ho pensato e abbozzato verso il ‘50, l’ho scritto nel ‘71. Da allora una revisione ininterrotta fino alle bozze di stampa. Mi è venuto dall’esperienza di malato in un sanatorio palermitano, negli anni del dopoguerra, quando la tubercolosi uccideva e segnava ancora come nell’Ottocento. Il sentimento della morte, la svalutazione della vita e della storia, la guarigione sentita come colpa e diserzione, il sanatorio come luogo di salvaguardia e d’incantesimo (ma La montagna incantata, è evidente, non ha giocato per nulla). E poi la dimensione religiosa della vita, il riconoscersi invincibilmente cristiano (…). Confesso che il primo capitolo che scrissi, fu come un gioco serio: e consisteva nel trovare intrecci plausibili fra 50 parole scelte in anticipo per timbro, colore, carica espressiva…».

Poi gli incontri, anche se già ciascuno sapeva dell’altro. Il primo nella villa di Franca Sellerio, organizzato dalla sorella Elvira, tra Santa Croce Camerina e Marina di Ragusa, nell’angolo di Sicilia abbellito dalla presenza del carrubo e dei muretti a secco, annota Matteo Collura, in qualità di solo testimone “munito di taccuino”, nel pregevole articolo su «Il Mattino» del 6 settembre 1981.

Fine il suo sguardo nel cogliere le diversità tra Sciascia e Bufalino. Il primo timido e quasi silenzioso (parlava poco per timidezza), il secondo “un vulcano di parole” con il “vizio del parlare così come quello dello scrivere”, sostenuto da citazioni letterarie sempre più fitte: «Così si sono trovati di fronte, da una parte Gesualdo Bufalino, fiume in piena, rapide travolgenti di eloquenza; dall’altra Leonardo Sciascia, esiguo ruscelletto di parole tutto specchi e luccichii. Si sono subito dati del tu, annotazione minima, ma importante, perché il loro incontro è avvenuto come in un salotto di cento e più anni fa, con un abbraccio, e sguardi, e sorrisi, e pudori anacronistici». Tra commozione e compiacimento, tra battute ironiche e risate, e rivelazione di comuni interessi, la confessione di Bufalino è esibita a cuore aperto: «Voglio dirti una cosa Leonardo, io invidio i tuoi interessi morali, sociali, la tua capacità di servirti della parola scritta per persuadere o dissuadere. Io, invece, non so fare scrittura morale».

 Scrivendo a più riprese di Sciascia, riprenderà questa sua riflessione come se fosse stato un rammarico la quasi assenza nelle sue opere di argomenti quali per esempio la giustizia e l’infamia irredimibile del potere: lui, umile e doloroso testimone di se stesso, e per giunta “falso di me”; Sciascia invece testimone del mondo, cioè della collettività. Breve la formula in cui Bufalino racchiudeva la differenza: «Sciascia insegue come tema fondamentale l’ambiguità della verità e l’impossibilità della giustizia in un modo che ha bisogno di verità e giustizia; io mi perdo dietro nuvole più vane e private: la felicità, l’infelicità; lo spavento e la bellezza del vivere».

Si incontravano a Palermo presso la casa editrice Sellerio. In compagnia di altri comuni amici, tra cui Vincenzo Consolo, nella casa di Contrada Noce durante il periodo della villeggiatura estiva. E viene ora in mente il racconto scritto da Sciascia, pubblicato dal giornale di Racalmuto “Malgrado Tutto” nel 1984 (numero agosto-settembre, accompagnato dall'incisione Giancarlo Cazzaniga). “Contrada Noce” s’intitola; ed è un inno gioioso alla vita: «… E sentiamo così di essere nel luogo per noi più vicino alla vita; alla idea, alla coscienza, al gusto della vita. Un luogo in cui l’amicizia, gli affetti, la bellezza, la morte (anche la morte) hanno un senso. Un luogo in cui ha senso il cibo (il pane che esce odoroso dal forno, il frutto staccato dell’albero, il vino che sgorga allegro dalla botte), il lavoro, il riposo»[3].

Non sembra difficile che lì, in quello spazio ameno lontano dall’acre odore dello zolfo, discutessero pure di cinema. Li accomunava la passione dei film in bianco e nero e ne registravano i titoli. Attori quali Louis Jouvet, Jean Louis Barrault erano stati per entrambi, “idoli cari e lontani”, “amici d’infanzia il cui ricordo esalta e commuove”. A confessarla questa loro passione è Sciascia in un saggio  dell’opera Fatti diversi di storia letteraria e civile (Sellerio, Palermo 1989): C’era una volta il cinema.  Poiché i ricordi sono indispensabili a nutrire la psiche, la letteratura e il cinema, facendoli affiorare, li raccordano e lasciano gustare il fascino del ri-essere secondo la nota espressione di Bufalino.

Già fanciullo Sciascia amava il cinema, così ne ricorda l’arrivo nella sua Macondo:

Arrivava intanto il parlato: in cui travasai, pur con qualche residua nostalgia, tutto l’amore che avevo per il muto. Studiando intanto a Caltanissetta, avevo modo di vedere più films: uno al giorno, e a volte anche due. Ogni anno riempivo un libretto di annotazioni sui films visti. Avevo, prima che lo facessero i giornali, inventato una specie di votazione con asterischi: cinque il massimo voto. La cosa curiosa, scoperta qualche anno fa, è che Gesualdo Bufalino, che non conoscevo, faceva allora la stessa cosa[4]. Non molto curiosa, a pensarci bene: perché per lui, per me, per altri della nostra generazione e della nostra vocazione, il cinema era allora tutto. “Tutto”.

Indimenticabile il pubblico incontro tenutosi a Ragusa il 21 maggio 1986 nell’Auditorium della Camera di Commercio, gremito di pubblico, dove Sciascia e Bufalino fecero conoscere i loro rapporti con la letteratura francese[5]. Nel corso del suo intervento, lo scrittore comisano riferì un gustoso episodio sull’essere ambedue siciliani di province diverse: «Ma io vorrei partire da un aneddoto: di come ci trovassimo insieme, io e Sciascia, in Germania anni fa, a Francofonte, e passassimo tre giorni alla disperata ricerca di pane e pasta. E di come ci sentissimo alieni e affamati, e ci consolassimo infine parlando di letteratura, ma non di Goethe e di Mann, ma di Diderot e Baudelaire».

Da ricordare la presenza di Sciascia nella ridente cittadina di Chiaramonte Gulfi in occasione di un convegno dedicato a Serafino Amabile Guastella nel 1986, che registrò la partecipazione di Bufalino come relatore[6]. La loro amicizia, dunque: profondamente condivisa potremmo dirla, pronta a interrogarsi sugli autori amati. Ed era una vera alcova di gioia. Intellettuali e scrittori della stessa età (Bufalino più anziano di tre mesi) colloquiavano e camminavano insieme, attraversando mari agitati senza mai arrendersi alle onde e alle tempeste.

 

:: Note:

[1] A parlarne estesamente è Concetto Prestifilippo nell’amabile scritto Leone di Sicilia, epopea di un’isola i 500 mila scatti, apparso su «L’Espresso» del 29.6.2021. Ecco un frammento: «Leone è un bracconiere di epifanie. Nel corso di quasi settanta anni di attività ha percorso in lunga e largo la Sicilia. Non c’è villaggio dell’entroterra o paesino della costa che non abbia fotografato, prima che uno dei due sparisse, definitivamente, per dirla con le parole del suo grande amico, lo scrittore Vincenzo Consolo. Scattando, senza sosta, ha messo in salvo, condotto a riva i relitti di un naufragio culturale. Immagini che testimoniano una trasformazione sociale epocale, la fine della civiltà contadina».

[2] G. Traina, Siciliani ultimi? Tre studi su Sciascia, Bufalino, Consolo. E oltre, prefazione di Giuliana Benvenuti, “Lettere persiane”, Modena, Mucchi 2014.

[3] La casa di Contrada Noce nel territorio di Racalmuto, a una ventina di chilometri in linea d’aria dal mare di Porto Empedocle, è stato luogo di affetti familiari, della scrittura e di incontri amicali: “Il paesaggio” – osserva Sciascia - “è quello della Sicilia interna: colline rocciose sparse di mandorli e di olivi, di vigne, di sommacco; qualche pino o cipresso in cima, a lato delle case bianche di gesso o gialle di tufo arenario; fitte siepi di ficodindia da ogni parte (…) e ci sono gli orti. E queste sono le oasi nella gran calura del giorno; né manca a darne l’illusione, la palma. La palma de oro y el azul sereno: e questo verso di Machado, palma d’oro in campo azzurro, è diventato per me una specie di araldico simbolo del luogo”.

[4] Il riferimento è al quadernetto Indice dei film visti: così si legge sulla copertina del taccuino che Bufalino redigeva ad ogni visione di film, dal 1934 al maggio del1956, annotando i film visti per attori e per studio, più che per regista.

[5] Il testo integrale degli interventi in “Pagine dal Sud”, settembre-ottobre 1986, n. 5, pp. 9-12.

[6] Gli atti del convegno non furono pubblicati e alcuni contributi, tra cui quelli di Sciascia e di Bufalino, si trovano in: G. Cultrera (a cura di), Serafino Amabile Guastella, Biblioteca comunale “Saverio Nicastro” Chiaramonte Gulfi, Ragusa, Leggio e Diquattro, 1992.  

 

(ph Giuseppe Leone)

 

Lo scopo di un'opera onesta è semplice e chiaro: far pensare. Far pensare il lettore, lui malgrado

Paul Valéry

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